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vecchie cose

Ho trascritto alcuni vecchi post a cui non volevo rinunciare. Li ho messi qui per comodità e facilità di gestione. Il copia e incolla non mi permette al momento di fare meglio. Spero che siano una piacevole lettura.

Ostriche

Qualche giorno fa ho assaggiato per la prima volta le ostriche.  In compagnia di un uomo che mi piaceva  ho finalmente trovato l’ispirazione per per mettermi in bocca quella roba molliccia e informe che una volta avevo visto fremere a contatto con l’acidità del limone.

Ho scoperto, come tanti altri sanno, che sono uno sballo. E senza fremiti, perchè le preferisco al naturale, così come sono, bevendo la loro acqua dalla conchiglia per poi farne un solo boccone. Senza limone, senza vino, senza niente. Cosa volete aggiungere a un’ostrica? Mi piace così, nuda e cruda, dura e pura.

La quintessenza del mare, e del sesso, anche. Per sapore, forma, consistenza. L’immaginario erotico si materializza nella viscida polpa opalescente al punto da pregustare altri umidi piaceri. Ma come sempre è una questione di testa. In fondo sono solo ostriche, mica viagra.

La mokina

Ho ricomprato la moka da una tazza. Due settimane fa quella vecchia si è fusa, dimenticata sul fornello mentre ero al telefono. Ho ricomprato la mitica Bialetti, con l’omino coi baffi dei caroselli della mia infanzia, perché è l’unica che riesce a fare bene il caffè. In altri tempi provai a economizzare dicendomi che il sistema di funzionamento era lo stesso e l’alluminio era pur sempre alluminio. Sbagliato! Dopo un paio di mesi di ciofeche che non davano cenno di miglioramento feci ammenda e, pentitami della tirchieria, l’omino ritornò in cucina.

Sto facendo il rodaggio. Prima un paio di bolliture a vuoto, poi con i fondi, e a seguire il primo caffè che ho lasciato lì per 24 ore in modo che l’alluminio ne assorbisse l’aroma: da non bere! Il successivo è stato un po’ acquoso, ma di sapore accettabile. Adesso, dopo appena due giorni, lo fa come se ce l’avessi da due anni.

A me la mokina piace. Mi piace il rito del caffè a casa, con questa tecnologia vecchiotta, ormai quasi antica, con cui si riesce a preparare la dose giusta di caffè: due tazze, perché il bis è sempre gradito, magari tiepido, da sorseggiare mentre si fanno altre cose. L’amore per il caffè me lo ha insegnato mio padre. A casa mia funzionava quasi esclusivamente la mokina da uno, perché chi voleva il caffè se lo doveva fare al momento. Riscaldarlo era un’eresia meritevole di defenestrazione, e mio padre si gustava l’eventuale dito avanzato bevendoselo direttamente dalla macchinetta, così com’era, freddo e amaro. La famosa “ciucciatina”.

Ci sono famiglie che sembrano non considerare il principio del piacere attivo per il palato. Quando frequentavo l’università avevo un fidanzato che apparteneva a una di queste. Erano quattro figli, così la mattina la madre preparava una moka enorme – credo fosse da nove – per poi riscaldarlo al bisogno, anche per i poveri malcapitati ospiti. Inutile dire quale insulto per le papille fosse quell’ignobile liquido scuro che veniva riscaldato non una, ma più volte nel corso della giornata.

La moka è anche un simbolo forte di identità nazionale. Sempre con questo fidanzato stavamo facendo un viaggio nel Nord Europa e ci eravamo portati nello zaino la mitica mokina e il caffè. Durante una delle tappe finlandesi sto andando nella cucina dell’ostello a farmi un caffè, la Bialetti in una mano e il caffè nell’altra. Nel corridoio incrocio un altro ospite che dopo avermi lanciato uno sguardo tra il solidale e l’invidioso, non trattiene il sorriso e mi fa: che sei italiana? E io ridendo: che vuoi un caffè? Meglio di qualunque bandiera. Fu in quel viaggio che imparai a berlo senza zucchero. Non era il caso di aggiungere peso al bagaglio, e in Finlandia sta male fregarsi le bustine nei bar.

Pizza e mortazza

A Roma c’è la pizza romana. Prodotto tipico da forno con la forma di una grande, lunga lingua. Bianca, appena un po’ altina, morbida e croccante insieme, lucida di olio con occhieggianti grani di sale grosso che brillano come diamanti. Buona, senza riserve.

Farcita con fette di mortadella fresche di taglio e alte il giusto si traforma in una squisitezza divina. E pazienza se il “carbo” ingrassa. Me la mangio piano piano, gustandola a piccoli morsi per prolungare il godimento al palato e trattenere finchè posso il grasso delicato della mortadella che si compenetra con la fragranza della pasta lievita. Volendo esagerare ci bevo sopra uno champagne non troppo aggressivo, che sgrassa il roseo insaccato e ne accompagna la delicatezza. Come dire, la morte sua.

Marcello

Qualche giorno fa ero dalle parti di via Tuscolana e ne ho approfittato per andare a fare spesa da Marcello, la migliore pescheria di Roma Sud. Dispongono il pesce in una ripida mostra che troneggia al centro del negozio: decine di cassette bianche di polistirolo e di ghiaccio ricolme di pesci di ogni dimensione e colore che eccita la vista nel contrasto con il verde dei ciuffi di prezzemolo e delle alghe. Il profumo di mare avvolge i clienti trasportandoli per il breve tempo della sosta a Terracina o a Anzio, dimentichi di essere tra gli orridi palazzoni della periferia.

Per me è un incantamento guardare la varietà del pescato, così fresco da essere spesso ancora vivo. Curiosa, mi informo, chiedo: come si chiama, da dove viene, che differenza c’è, e anche – per le specie che non conosco – come si cucina. Non resito al richiamo del rosso di triglie, scorfani e capponi, all’argento striato di verdeazzurro degli sgombri, alla marezzatura delle seppie. Dall’umile alicetta al raffinato branzino, alla mostruosa coda di rospo, tutto mi sembra degno di esse acquistato e mangiato. Perciò bisogna scegliere. Questa volta mi sono portata a casa un sanpietro da sfilettare e servire in guazzetto, due seppie da fare crude marinate nello zenzero, e mezzo chilo di pescetti rossi, piccoli capponi di 4/6 cm provenienti da Ponza, che lì usano per fare una minestrina.

Decido di affidare il mio  sanpietro alle cure di Fernando, l’addetto alla pulitura che dietro al piano inclinato dell’esposizione, su un apposito lavandino di marmo, apre, sventra e sfiletta. Abilissimo, maneggia il coltello alla velocità della luce con la precisione di un chirurgo. I clienti stanno lì ipnotizzati a vederlo lavorare e nessuno si esime dal lasciare una generosa mancia per lo spettacolo fuori programma. Solo che Fernando non c’era. Al suo posto un ragazzotto di buona volontà e poca pratica che ho visto con apprensione strapazzare un po’ troppo il mio sanpietro. La prossima volta faccio da sola. Con lo strumento giusto è un’operazione che può dare le sue soddisfazioni.

Ho fatto la minestrina ponzese. Roba semplice per palati raffinati. Portare a bollore acqua qb con poco pomodoro, aglio, e un olio non aggressivo. Per il momento non salare. Aggiungere i pesci che avrete ovviamente pulito, qualche ramo di prezzemolo e peperoncino. Cuocere per 20 minuti. Togliere il prezzemolo, frullare e passare al cinese fino. Rimettere sul fuoco finchè il brodo non raggiunge la giusta concentrazione, salare e cuocervi un pugnetto di spaghetti spezzati a persona. Fuori dal fuoco unire alla minestra prezzemolo tritato al momento e servire.

Impietosi confronti

E’ possibile che la terrina francese di vitella alla salvia sia più buona del polpettone di nonna? E’ possibilissimo. I francesi non a caso sono i francesi.

Mia nonna Fiammetta era marchigiana e sapeva cucinare. Il suo polpettone in famiglia era mitico , noi bambini c’andavamo matti. Ogni volta che lo faceva era una festa. Le porzioni erano rigorosamente stabilite, altrimenti lo avremmo mangiato fino all’ultima fetta. E, inutile dirlo, i pezzi più ambiti erano i due culetti, tanto che a tavola non arrivavano mai. Ma non si facevano favoritismi: andavano ai primi che li sgraffignavano.

Lavorava a lungo 600 gr di carne macinata di maiale, due uova, mollica di pane bagnata, due cucchiai di parmigiano, sale, pepe e noce moscata, qualche giro d’olio. Dopodichè si bagnava le mani e prendeva tutta la massa iniziando a dargli forma, continuando a maneggiarla per eliminare l’aria all’interno e renderla compatta. Infine la avvolgeva nella rete di maiale. La rosolatura era molto importante perche si doveva formare una bella crosticina da tutti i lati. A quel punto, erbe aromatiche, vino bianco, e fuoco al minimo. La cottura procedeva “morta”, secondo l’uso dell’Italia centrale per gli arrosti al tegame. Una volta terminato l’indispensabile riposo lo portava a tavola, non senza averlo tagliato a fette di mezzo centimetro, e avergli ridato appena calore.

Qualunque altro polpettone, paragonato a questo, era immangiabile. E poichè era cibo di casa per eccellenza, si trattava in genere di quello di altre famiglie che avevo modo di assaggiare quando ero ospite. Ricordo consistenze gessose affogate nel pomodoro, faticosissime da mandare giù. Ma ancora più faticoso era il forzato gradimento che per educazione dovevo mostrare. In fatto di carne macinata ho sempre pensato che non ci potesse essere niente di più buono del polpettone di Fiammetta. Mi sbagliavo.

Ho preparato la terrina di vitella alla salvia seguendo le istruzioni di una ricetta francese. Quando l’ho assaggiata era talmente buona che ho pensato: meglio del polpettone di nonna. In realtà appartengono a due categorie gastronomiche diverse perchè le terrine non si fanno con la carne macinata e non cuociono al calore diretto del fuoco. Per un chilo di carne, di cui il 20 % di maiale, aggiungiamo un uovo, mollica di pane bagnata nel vino bianco, due cipolle rosolate in burro e salvia, sale, pepe e noce moscata. La carne va tagliata a tocchetti e poi messa in un robot con i resto degli ingredienti. L’impasto deve risultare molto grossolano e disomogeneo. Si fodera una terrina con la rete di maiale, si riempie con il composto avendo cura di comprimere bene, si chiude e si fa cuocere in forno a bagnomaria pe circa due ore. Una volta fredda, va scolata dal grasso, e messa in frigorifero tre giorni prima di consumarla.

Appare chiaro che quello che fa la differenza è il sistema di cottura. Il bagnomaria consente alla carne di cuocere lentamente, a bassa temperatura, ma soprattutto nel suo stesso grasso, rendendola così compatta, morbida, profumatissima e saporita. Terrina batte polpettone 4 a 3. Ai rigori.

Ventotene

La mia prima, e in verità unica, vacanza da sola risale a parecchi anni fa. Era la seconda metà di giugno e decisi di andarmene dieci giorni a Ventotene.

L’isola era piccola e bellissima, selvaggia. Niente vita mondana, niente macchine. Le giornate si dipanavano tra il porto romano e le scalee borboniche, tra la villa di Giulia e la piazzetta vecchia, quella in alto. Amo molto il mare, il suo rumore, e lo iodio, e il vento, e i profumi della macchia mediterranea. Lo amo in solitudine, senza i rumori della civiltà, preferibilmente fuori stagione. Detesto le spiagge, l’affollamento, gli stabilimenti, la musica dagli altoparlanti, quelli che giocano a racchettoni, l’odore degli olii abbronzanti al cocco, le madri che urlano appresso ai figli.

Mi avevano detto che il posto migliore per starsene in santa pace erano le cave romane, a est sotto la villa di Giulia. La roccia era tagliata ad angolo retto a mezzo metro sul livello dell’acqua. Tanto spazio, un bel gradone dove sedersi all’ombra quando, nelle ore più calde, il sole iniziava a girare. Il posto era tranquillo perchè ci si arrivava con una impervia passeggiata attraverso il cimitero -20 minuti almeno- e tre metri di discesa in verticale sulle rocce, oppure in barca. Insomma la postazione bisognava guadagnarsela. Tra le nove e le dieci si riuniva lì una piccola pattuglia di eccentrici personaggi e un cane lupo. Il tempo passava tra letture, musica in cuffia, e bislacche ed erudite conversazioni.

Cenavo nei ristorantini e nelle trattorie sulla piazza principale. Mangiai bene o decorosamente in tutti, ma nessuna pietanza era da ricordare. Memorabili invece furono le lenticchie che comprai a un prezzo da capogiro dalla padrona di casa, appena raccolte e ancora da lavare. Operazione che feci a casa, fondamentale per la conservazione del prodotto. La signora mi diede anche la ricetta, splendida espressione del territorio, diventata ormai parte del mio repertorio gastronomico.

Ventotene produce lenticchie, come altre scogliose isole sparse nel Mediterraneo. Cibo biblico, così buone e pregiate, che per poterle mangiare Esaù vendette la primogenitura. La zuppa di lenticchie alla moda di Ventotene è un piatto semplice e essenziale, di quelli che piacciono a me. In una pentola di coccio mettete a crudo i legumi, acqua, pomodoro, aglio, peperoncino, un extravergine di corpo, e abbondante basilico. Incoperchiate e cuocete a fuoco bassissimo per circa due ore. Salate. Servite tiepido con fette di pane tostato. Chiunque venderebbe la primogenitura.

Le lenticchie possono anche non essere quelle di Ventotene, ma è fondamentale che siano di ottima qualità. Devono reggere la cottura senza spapparsi. Alla fine le dovrete sentire intere sotto i denti.

Pil-pil

Sono riuscita a trovare il modo di abbreviare la cottura per il baccalà pil-pil. E’ il nome onomatopeico con cui i baschi evocano il suono del merluzzo che cuoce immerso nell’olio a fuoco basso. Dire che è buono è poco.

La ricetta che ho la fa piuttosto lunga, una sorta di pratica zen. Bisogna dare una prima mezza cottura, dopodichè togliere l’olio per riaggiungerlo a fuoco dolcissimo un cucchiaio alla volta agitando in continuazione la pentola, montando così un’emulsione composta dall’olio e dalla gelatina del pesce. La salsa alla fine dovrà essere di un intenso color giallo e avere una consistenza spessa e densa.

Il solito Bourdain nel suo secondo libro accenna al fatto di aver cucinato il bacalao a pil-pil, dicendo la cosa più importante per me. Che ha montato la salsa dopo la cottura. Lampadina quasi da corto circuito!Ho subito ripetuto l’operazione con un risultato impeccabile e un impegno minimo.

Vi serviranno baccalà, olio extravergine e aglio. Tutto deve essere di qualità eccellente. Mangerete qualcosa di veramente buono solo a questa condizione. In una pentola di coccio versate abbondante olio e altrettanto abbondante aglio tagliato a fettine. Dorate e mettete a scolare su carta da cucina. Fate perdere calore all’olio e mettete in pentola il baccalà tagliato a pezzi con la pelle rivolta in alto. Date in questo modo la prima mezza cottura a fuoco basso. Girate il pesce, aggiungete un paio di cucchiai d’acqua, alzate un po’ il fuoco e incoperchiate. Il baccalà cuocerà alla perfezione tirando fuori tutta la sua gelatina. Terminata la cottura togliete il baccalà dalla pentola e montate la salsa a caldo girando con un cucchiaio di legno. Versatela sul baccalà, decorate con le fettine d’aglio croccante e del prezzemolo tritato. Si mangia tiepido. I mugolii di piacere vanno considerati effetti collaterali.

Zuppette

“Chi non fa parte della famiglia grida allo sperpero, allo spreco allo scandalo. E’ vero che da 150 anni inzuppiamo, quando l’occasione lo merita, i biscotti di Reims nel vino di Bordeax, preferibilmente di ottima qualità. Uno solo di questi biscottini, rosa e bianco come un neonato cosparso di borotalco, è in grado di vuotarvi allegramente un bicchiere di Chateau Margaux. Inzuppatelo: perde immediatamente la sua copertura di zucchero a velo, vira verso il rosso scuro e si appesantisce di nettare. L’operazione richiede un gesto rapido, poichè il biscotto deve conservare un po’ della croccantezza e della leggerezza a cui deve la sua fama. Non si dovrà lasciare che il vino lo inzuppi completamente. Presa questa precauzione, la consistenza in bocca è formidabile: la rara mescolanza, esplosiva e quindi evanescente, del liquido e del croccante. Quanto al sapore, è una cosa eccezionale: l’alcol e i tannini del vino, lo zucchero del biscotto e il ricordo ravvivato degli ingredienti della pasta si mescolano in una giusta e delicata armonia.” (Jerome Dumoulin e Nicolas Le Bec, Cucina bruta, Guido Tommasi Editore)

Questo signore sa scrivere, e sa vivere. Consiglio il libro.

Da parte mia colgo l’occasione per proporvi una romanissima zuppetta. Fate dei crostini con del pane casareccio, spalmateci sopra della ricotta di pecora e inzuppate il tutto nel caffè caldo. La tecnica è la stessa illustrata sopra per i biscottini di Reims, benchè con tempi più lunghi: il pane deve  assorbire il caffè, conservando tuttavia la leggera durezza della crosta esterna. In bocca avrete la mollica imbevuta di caffè racchiusa nella sottile superficie croccante che troverà l’equilibrio nel contrasto con la cremosità della ricotta.

Provateci, una domenica mattina.

Mondovino

Ho visto il filmm di Nossiter di cui tanto si sta parlando. E’ assolutamente da non perdere.

Il regista racconta la globalizzazione del mercato giustapponendo i discorsi di chi il vino lo fa e lo vende. Non c’è voce fuori campo, non ci sono spiegazioni se non le parole di coloro che raccontano il proprio lavoro e la propria vita. C’è invece una telecamenra digitale che arriva nei recessi più intimi dei protagonisti.

E’ una guerra tra due filosofie produttive che vede schierati da una parte una compagine di piccoli produttori che difende una cultura secolare e l’amore per la propria terra, dall’altra i Mondavi, il winemaker Michel Rolland e il potentissimo giornalista Robert Parker. Non Europa contro Stati Uniti, bensì Davide contro Golia, perchè anche nel vecchio continente il vino è un’industria che nutre il mercato. Nel film poi non compare l’azienda australiana numero una al mondo per fatturato, in lizza per la scalata dell’impero Mondavi, il quale si ritrova così a rivestire il ruolo del cattivo di turno. Scelte di parte? C’è chi si è chiesto a che gioco sta giocando Nossiter. Domande capziose, sbrodolature da addetti ai lavori che lasciano il tempo che trovano perchè Nossiter coglie l’essenza del contendere che è soprattutto etica. Mondavi è una corporation e il suo vino è solo una merce da vendere, come del resto per gli australiani. Rolland fa soldi a palate costruendo per i suoi clienti ai quattro angoli del pianeta i vini in laboratorio, usa la microossigenazione, tanta tecnologia e tanto legno nuovo. Il risultato di tale massiccio intervento nel lavoro di cantina sono vini buoni, facili, di successo, ma che hanno perduto l’anima. Senza profondità, tutti uguali, che possono essere stati fatti dovunque: rotondi, morbidi, immediatamente disponibili. Per ulteriori dettagli potete andare qui e qui.

Il vino è civiltà, cultura, storia e sapienza. E’ piacere, nutrimento e gioia di vivere. Tutto questo me lo danno i vini di terroir, non i vini industriali. Terroir è un termine francese che indica il complesso legame esistente tra il suolo e il clima nelle varie componenti della natura geologica del terreno, delle sue caratteristiche nutritive, dell’altitudine, della pendenza e dell’esposizione, del microclima e del macroclima, sole, pioggia, escursioni termiche. La pianta con le sue caratteristiche genetiche si nutre di questa complessità e l’uva ne è il risultato diretto. I vignaioli che scelgono il terroir, i terroir-isti, come li definisce acutamente Rolland nel film, si fanno interpreti di questo rapporto tra il vitigno e l’ambiente cercando di intervenire il meno possibile durante la vinificazione. Il risultato saranno vini a volte imperfetti, ma sempre unici e significativi, che danno emozioni. E quando raggiungono la perfezione, allora, qualunque vino costruito a tavolino semplicemente non esiste più.

Puntarelle

Roma è sempre stata famosa per i suoi orti, numerosissimi fino alla fine dell’Ottocento, molti dei quali addirittura dentro le mura, incastonati tra le rovine. I prodotti dell’orto, le cosiddette ‘erbe’, le ‘verdure’, occupano non a caso un posto di rilievo nella tradizione gastronomica della città. Recita un famoso stornello:
Fior de grispigni,
li facioletti mii tu nun li magni,
e drento al piatto mio tu nun c’intigni.
A testimoniare di quale favore venisse accordato agli ortaggi.

Una delle più famose insalate romane è quella di puntarelle. Leggiamo ne “La cucina romana e del Lazio” di Livio Jannattoni:
<<…il Belli, già in un sonetto del 1831, tentava di diradare il piccolo mistero (di cosa cioè siano le puntarelle), inseguendo sempre con estrema risolutezza le parole e i loro significati.

Ecco quer che succede a tanti gnocchi
che nun zanno addistingure in ne l’erbaja
le puntarelle mai da li mazzocchi.

E a puntarelle annotava: “Insalata fatta col tallo di cicoria presso all’insemenzire”. Forse doveva pure precisare che si tratta di una particolare varietà di cicoria, la ‘catalogna’, i cui germogli danno in realtà origine alle puntarelle.>>

Ci dispiace per l’ottimo Jannattoni che, dopo tanto disquisire, ignora l’avvertimento del Belli finendo proprio tra quegli gnocchi che non sanno distingure le puntarelle dai mazzocchi. A Roma infatti il nome identifica con notevole proprietà descrittiva la cicoria catalogna, che si presenta come un cespo fatto da grossi germogli disposti attorno a un tronco centrale: un mazzocco, appunto. Ad avere ragione era Giuseppe Gioacchino perchè le puntarelle sono esattamente la punta, la spigatura del cicorione, cioè tallo all’insemenzire. Non una cicoria qualunque, ma quella coltivata, di dimensioni maggiori e dal sapore meno aggressivo.

Le puntarelle si trovano con una certa difficoltà solo sui banchi di qualche produttore nei mercati rionali, esclusivamente nel mese di maggio. Hanno l’aspetto di lunghe canne con un diamentro di circa mezzo centimetro. La pulitura richiede tempo, pazienza e attenzione. Dopo averle liberate dalle foglie più dure, vanno tagliate longitudinalmente in due con un coltellino affilato, ricavandone poi delle striscette che andranno messe a bagno in acqua fredda. Tale trattamento le farà arricciare come molle. Sono così pronte per essere condite con un pesto di aglio e alici salate, aceto e olio. Non è ancora finita perchè sarà indispensabile anche un quarto d’ora di riposo per lasciare che i bei riccioli verdi sentano il condimento. L’accostamento elettivo è con l’abbacchio.

Se le volete, ve le dovete fare. Non sperate di trovarle in trattoria o al ristorante, dove novantanove su cento vi spacceranno i mazzocchi per puntarelle, di cui non sono altro che un pallido surrogato, più facili da pulire e disponibili tutto l’inverno.

Coniglio

Quando ero piccola, tra le tante cose che non volevo mangiare c’era anche questo grazioso roditore. Uno dei motivi marginali era senz’altro il fatto che la bestiola fosse piccola, morbida e, appunto, graziosa, nonchè forse il ricordo del cartone di Bugs Bunny. Mia madre avrà tentato di convincermi non so quante volte, ma a sette anni i rifiuti sono incrollabili. Nella sua logica da adulta non riusciva a capacitarsi perchè il pollo godesse dei miei favori, mentre il coniglio no; ai suoi occhi le differenze erano minime. A casa era una carne che piaceva perciò la famiglia tutta ordì un complotto alle mie spalle.

Una domenica eravamo dalla nonna e mi dissero che per pranzo ci sarebbe stato il pollo di montagna. Mi impedirono di entrare in cucina a curiosare come ero solita fare, e dopo, a tavola, madre, padre, zie, nonni, tutti ridevano sotto i baffi guardandomi mangiare soddisfatta e di buon appettito il pollo di montagna. Quando terminai erano addirittura sghignazzanti, allora capii che qualcosa non adava. Alla rivelazione di quello che effettivamente avevo mangiato la rabbia per l’orgoglio ferito fu tanta, però da quel giorno non rifiutai più il coniglio.

Oggi, che di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, apprezzo molto la sua carne bianca e tenera, delicata con carattere. Mi piace mangiarlo, e più ancora mi piace cucinarlo. E’ una materia prima che mi stimola, come del resto tutti gli animali da cortile, per i quali nutro un forte interesse gastronomico a causa del loro sapore deciso e della loro versatilità nell’abbinameto con erbe, verdura, e frutta. Nonchè per le loro piccole dimensioni, che obbligano a una cottura sempre perfetta, e che mi danno la possibilità di iniziare il lavoro in cucina quando l’animale è intero.

Se ho fretta ne prendo qualche pezzo, lo strofino con semi di finocchietto, sale grosso e pepe pestati al mortaio, faccio soffriggere bene a fuoco vivo, aggiugno del vino bianco, uno spicchio d’aglio e proseguo la cottura morta per non più di un quarto d’ora. Facile facile e buono buono.

Volendo programmare mi faccio dissossare dal macellaio un coniglio intero, lo fodero con della pancetta stesa di giusta stagionatura e diversi ciuffi di aneto. Rimetto le interiora lavorate a patè più o meno dove si trovavano in origine, arrotolo tutto ben stretto e lo lego con uno spago. Sale, rosolatura, vino bianco, scalogno e carotina, e cottura come sopra. Lo servo con del purè di sedano rapa. Se questi gusti non sono nelle vostre corde, viene benissimo anche con il timo.

Pietro e Paolo

Piove, governo ladro!

Oggi a Roma ne ha fatta proprio tanta, di acqua. Sembrava novembre, alla faccia della primavera. Ma sui banchi del mercato è decisamente maggio. Ci sono le fave fresche, che qui ci piace mangiare col pecorino: il piccante del formaggio insieme al freschezza amarognola della fava, un bel connubio.

Ricordo le tavole domenicali dell’infanzia di questo periodo piene di mucchi di bucce. Si stava tutti lì a chiacchierare e a trastullarsi, una volta sgombrati i resti del secondo, con le fave, il vino, il pane, il formaggio.

Pietro e Paolo cappuccino
che mangiava le pere cotte

le mangiava col cucchiaino

Pietro e Paolo cappuccino

In quelle occasioni mio padre prendeva una delle fave più belle e la liberava dal grosso filo che le attraversava il dorso, lasciandolo però attaccato in cima, e tagliava parzialmente la punta del baccello, in maniera che tirando il filo si aprisse e chiudesse come un cappuccio. La pantomima, di cui beneficiavamo mia sorella ed io, aveva come colonna sonora la filastrocca di Pietro e Paolo cappuccino. Il gioco ci divertiva e nostro padre non si tirava mai indietro.

Questo per dire che al mercato ho comprato, tra le altre cose, mezzo chilo di fave. Pochine, in effetti, ma la mia idea era di aggiungerle a cacio e pepe. Così le ho pulite, liberandole anche della cuticola che avvolge il seme (le pratiche zen dello sguateraggio!) e le ho tritate grossolanamente al coltello. Infine, in padella con un filo d’olio, gli ho dato una botta rapida di fuoco vivace giusto perchè perdessero il crudo. Niente sale. Ne ho messa una cucchiaiata sulla pasta direttamente nel piatto, troppo delicate per mantecarle a freddo insieme agli spaghetti. L’effetto cromatico del contrasto tra il bianco sporco e il verde brillante era notevole, così come l’abbinamento del pecorino con le fave, del resto scontato.

Cacio  e pepe fa parte di quelle paste della tradizione che io chiamo dei pastori. La materia prima è solida e non deperibile, caratteristiche che ne hanno fatto un cibo ideale per quella vita. Gli spaghetti, anzi i vermicelli, vanno conditi rigorosamente solo con pecorino romano e pepe, e chi ci mette l’olio, o usa la pasta all’uovo, non ha capito lo spirito del piatto. Bisogna lavorare a freddo la pasta con abbondante pecorino grattugiato e acqua di cottura, aggiungendo entrambi un po’ alla volta finchè non si forma una densa cremina. Il pepe va macinato al momento in quantità variabile secondo i gusti. E’ una pasta splendida perchè spartana, essenziale, e di difficile esecuzione.

L’aggiunta delle fave è una variante molto gradevole, che arricchisce il piatto secondo gli usi gastronomici del territorio.

Damijan

Damijan Podversic è un ragazzone di quarant’anni con la pelle cotta dal sole e le mani grandi come pale. Abbiamo appuntamento con lui alle 16,00 di sabato 13 agosto all’ingresso del Parco Piuma a Gorizia. Lo avevo chiamato in mattinata incuriosita dalla “fermentazione a contatto con le bucce, senza controllo della temperatura o aggiunta di lieviti selezionati”, come recita l’edizione 2004 dei Vini d’Italia, e dal fatto che facesse solo tre vini. Per telefono vuole sapere come sono arrivata a lui e sottolinea che i suoi vini sono particolari, lui non fa la cocacola. Benissimo, io cerco qualcuno che mi parli della sua passione per questo lavoro, delle pratiche colturali e delle tecniche di cantina. Bene, mettetevi le scarpe adatte che ieri è piovuto e la vigna è piena di fango. Sta per avere inizio una grande lezione sul vino. Damijan è un vignaiolo estremo e un uomo senza compromessi.

Raggiungiamo le vigne sulle pendici occidentali del Monte Calvario. 10 ettari, anche troppi, commenta. Le piante sono tutte giovani, nessuna ha più di dieci anni, alcune appena tre settimane. Le nuove viti sono frutto della selezione massale operata su una vigna centenaria espiantata per vecchiaia. Ci dice che la durata della vita di una vigna dipende dalla qualità del portainnesto: se il vivaista lavora bene si può anche arrivare al secolo, altrimenti dai 20 ai 40 anni. Damijan conosce le sue viti una per una, le coccola, le accarezza, ci parla quasi. Cammina tra i filari per vedere come va, la stagione è piovosa e mancano ancora 40 giorni alla vendemmia. Ogni tanto stacca un grappolo, un apice. Ci spiega che fa due diradamenti, il secondo di nascosto dell’anziano contadino che lavora con lui e che non accetta questa pratica colturale, vista come un peccato vero e proprio, uno spreco inammissibile. Tutti i grappoli indietro nella maturazione e tutte le ali devono inesorabilmente cadere, affinchè le proprietà nutritive e l’energia della pianta si concentrino sui frutti migliori. Non irriga e il sesto d’impianto è un metro e ottanta. Il suo obiettivo è produrre qualità, contenendo la quantità. E’ necessario che le viti spingano le radici in profondità nella terra dura e pietrosa, allora il vino sarà buono. Per questo le piante danno frutti utilizzabili solo a partire dal settimo anno. Mi conferma che non concima e lascia invece inerbire, ma dalla prossima stagione inizierà con il sovescio. Come antiparassitari usa unicamente prodotti a base di zolfo, non interviene in alcun modo contro le muffe, e per i cinghiali golosi c’è poco da fare. Ha deciso di adottare i trattamenti biodinamici, nei confronti dei quali nutre però forti perplessità perchè non sa se funzioneranno.

Stacca un acino separando la polpa dalla buccia e ce le mostra, ognuna al centro delle sue manone annerite dalla vigna, che danno risalto al verde del frutto. C’è tutto l’amore per la sua terra e per il vino in questo gesto. Ci dice che in fondo la polpa è poca cosa, simile a ben vedere in tutte le varietà. Il vino lo fanno le bucce.

La cantina si trova 25 km più a Ovest, a Dolegna. Al piano terra ci sono numerosi contenitori in acciaio, ma non ci dobbiamo far caso, è un investimento sbagliato. Scendiamo e vediamo altro. Tutto è di legno, il vino è a contatto con qualcosa di diverso dal rovere solo quando entra nelle bottiglie. Il mosto fermenta sulle bucce per 30 giorni senza l’aiuto dei lieviti selezionati, materia aliena al territorio – per di più prodotti in Olanda. La temperatura arriva a 35 gradi centigradi, e se questo è il processo naturale, perchè intervenire per abbassarla? Lui appunto fa vino, non cocacola. Ovviamente neanche lo filtra – ci tiene a dirlo e lo ha anche scritto sull’etichetta – tanto, ha tutto il tempo per decantare da solo. Ci spiega che la cosa più importante in cantina è la pulizia. E’ fondamentale che il vino nuovo trovi il legno dei tini e delle botti perfettamente pulito. A questo scopo utilizza bicarbonato di sodio, acido citrico, e tanta acqua.

Non ha nulla di pronto da farci assaggiare, ma solo prodotti in piena fase di trasformazione, prelevati direttamente dalla botte. Cominciamo con il bianco 2004 che andrà sul mercato nel 2007. Un uvaggio di Tocai, Ribolla e Chardonnay in due versioni: nella prima le uve sono state assemblate dopo la fermentazione, nella seconda prima. La differenza è netta benchè sia ancora in svolgimento la malolattica. La fermentazione separata sta dando un vino molto più elegante e pulito con una presenza di carbonica, naturale in questa fase, meno aggressiva. Questo adesso, ma quando il vino sarà pronto? Non ho alcuna esperienza, è la prima volta che assaggio vini che si stanno facendo ed è difficile riconoscere i sapori. Proseguiamo con lo Chardonnay e con la Ribolla che ancora non ha terminato la fermentazione, e infine il rosso, un uvaggio di Merlot e Cabernet Sauvignon. Ma Damijan non ama il rosso, e poi ha ragione, questa è terra da bianchi. Ci parla di Josko Gravner che è il suo maestro spirituale e fa il vino nel dolio di terracotta e è 20 anni avanti. Chiacchieriamo delle cose della vita. Decide che meritiamo un omaggio e apre per noi la prima bottiglia di Ribolla 2003, imbottigliato all’inizio del mese, ancora scomposto e con la solforosa nettissima, ma i profumi sono stupefacenti. Dice che l’annata sarà eccezionale perchè è la famosa estate in cui non è mai piovuto. Bottiglie da comprare e da dimenticare in cantina per qualche anno. Andiamo via con la voglia di tornare a fine settembre per aiutarlo nella vendemmia.

Du’ spaghi

Stasera, durante una delle numerose pause pubblicitarie di Desperate Housewifwe (era l’ultima puntata e ammetto di averle viste tutte), ho appreso che la Foppa Pedretti commercializza il suo ultimo modello di carrello da cucina col nome di “Du’ spaghi”, pronunciato in perfetto italiano con tonalità lombardo-veneta da due spilungone in minigonna.

Sono inorridita. E’ stato come sentire il gesso stridere sulla lavagna. La mia romanità ha avuto un moto di ribellione. Du’spaghi non è una coloritura linguistica locale, esportabile a piacere, è molto di più, du’spaghi è un concetto. Dire famose du’ spaghi significa prendersi una momento di convivialità che ha al centro il rito della pasta. Deve essere veloce nell’esecuzione e nel consumo. Aglio e olio, cacio e pepe, o qualunque condimento la cui fattura non superi il tempo di cottura. E’ solo un piatto di pasta da godere in qualunque ora della giornata. Ogni occasione può essere buona, l’importante è che si abbia un posto dove farli. Indicano anche un primo disimpegnato – anche nella quantità – in un pasto regolare.

In un’intervista Alain Ducasse dice che noi italiani abbiamo una cucina mammarola, abbiamo la pasta. Ecco, du’spaghi esprime esattamente questo. Qui a Roma è un modo per volersi bene. E per farli ci vuole veramente poco. L’oggetto in questione è invece un coso in legno massello superaccesoriato che non ha niente a che vedere con la semplicità dei nostri du’spaghi. Non credo che rientriamo, noi romani, nel target del carrellino, destinato piuttosto a tutti quelli che nella provincia del Nord hanno case dotate di cantinette e che mai diranno nella vita famose du’ spaghi.

Stendere

Cosa cucinare per stendere un uomo? Me lo ha chiesto una lettrice in questo ultimo mese di black out. Rispondo pubblicamente dato l’interesse dell’argomento.

Però stendere! Ad asciugare dopo averlo ben strizzato? Metterlo ko? Vedere il quadrato della tavola apparecchiata per un convivio amoroso come un ring non mi sembra un buon inizio. Quest’uomo lo vogliamo piuttosto in ginocchio estasiato che chiede quando sarà la prossima cena. Oppure piegato da un’orgia enogastronomica. O ancora prepararlo per la seconda parte della serata. E noi sappiamo cucinare? Quanto?

Non ci sono ricette preconfezionate e non ci sono regole. Ogni situazione è unica, bisogna farsi guidare dall’istinto. Tuttavia è bene ricordare che il mito di alcuni alimenti afrodisiaci è appunto mito. In realtà lo è tutto il buon cibo, e l’unico vero afrodisiaco siete voi, il resto è solo un aiuto.

Che situazione avete davanti? Sesso espresso oppure si profila una relazione? Nel primo caso è utile qualcosa di disimpegnato ma d’effetto, e sarà bene curare la scenografia. Nel secondo potete puntare più opportunamente su pietanze elaborate e di solida struttura. Informatevi comunque sui suoi gusti, apprezzerà l’attenzione. Se volete che le attività si spostino dalla tavola al letto non abbuffatevi e ubriacatevi solo quel che serve, altrimenti berrete, mangerete e parlerete. Non è poco, ma finirà lì, e non è detto che non vada meglio.

La chiave di volta alla fine è il vino, che allenta i freni inibitori e favorisce la conversazione. Con l’abbinamento si valorizza il cibo, e in caso di scarse capacità culinarie potete recuperare bene. Nel piatto metteteci pure un aglio e olio e una frittata, ma il vino dovete sceglierlo con attenzione e senza parsimonia. Fatevi consigliare da un buon enotecaro qualcosa che non abbia effetti collaterali -roba pulita!- e che si abbini bene con quello che cucinerete. Se avete dei dubbi, con due bottiglie di champagne risolverete ogni problema. Accostatelo pure a burro e alici o a una coratella coi carciofi, lo stupirete.

Ho dato per scontato che l’oggetto dei vostri sforzi sia in grado di apprezzare il buon cibo e che voi sappiate decorosamente spadellare. Se così non è si profilano i seguenti scenari:

  1. Vi piace cucinare e siete brave. Sceglierete inevitabilmente solo uomini golosi. Non avete bisogno di consigli.
  2. Ve la cavate così così. E’ meglio che prepariate accuratamente tutto.
  3. Siete impedite. Se è solo per una sera potete anche ordinare al ristorante e dire che l’avete fatto voi. Se è una cosa seria e lui ama la tavola non vi resta che imparare, altrimenti non avrete chances.

Infine se l’uomo in questione è di quelli che mia madre lo fa meglio, rispeditelo al mittente e trovatevene un altro.

Al supermercato

Ovvero guerriglia marketing.

Un sabato pomeriggio di inizio agosto alla coop per un acquisto dell’ultimo momento. Il supermercato è pressochè deserto: io e qualche altro cliente. Il tempio del consumismo vuoto lì per te che compri tre cose. Una pacchia. Sosto davanti al frigo del burro per decidere qual’è meglio per fare i biscotti, e poi hai visto mai che ritrovo Occelli, comparso tra le loro referenze per un breve periodo a € 2,55. Mentre sono immersa nel dubbio se scegliere il panetto da 250 gr o quello da mezzo kilo, sopraggiunge una signora sui sessanta che allunga la mano per prendere la margarina.

Che faccio, glielo dico? Considerata l’aria cordiale della tipa decido che sì, glielo posso dire:

– Signora, ma cosa fa? compra i grassi vegetali idrogenati?
– Perchè, la margarina è idrogenata?
– Certo, la margarina è un grasso vegetale idrogenato. E poi mica lo sa con quali grassi vegetali è fatta. E’ un prodotto industriale trattato chimicamente. Non fa bene e non è buono. Perchè non compra il burro?
– Ma cercavo qualcosa di leggero…
– Queste sono le bugie della pubblicità. Il burro è meglio, mi creda.
– Ah sì? La ringrazio! Allora il burro…
– Tedesco o francese, perchè quello italiano è fatto col siero e non con la panna centrifugata.
– Grazie, grazie ancora!
– Ma le pare, non c’è di che. Arrivederci.

Dopo dieci minuti ci rincrociamo davanti ai detersivi e mi saluta con un gran sorriso.

Mi sono stupita di una simile reazione positiva. Non si può mica dire alla gente tu devi comprare questo invece di quest’altro. E’ una violazione personale piuttosto forte. Però bisogna provarci perchè gli hanno lavato il cervello, bisogna dargli le informazioni per reagire. Ma non sono mai discorsi semplici. Le margarine ad esempio sono solo parzialmente idrogenate, e poi ci sono i grassi trans…Non gliela puoi fare troppo lunga davanti al banco frigo proprio mentre la signora sta per prelevare il subdolo panetto. Così, o funziona, o ti mandano a quel paese.

Idiosincrasie

La cucina dovrebbe essere il regno della funzionalità. Un ambiente da usare, con gli spazi ben organizzati e razionali, con strumenti maneggevoli, comodi e facili da pulire. Non sempre è possibile, ma almeno non complichiamoci la vita. Cosa che puntualmente a me succede con questo sistema per appendere la roba.

ganci cucina

La sbarra in sè non ha niente di sbagliato, anzi. Il disastro funzionale è nell’associazione ai ganci mobili. Sono fermamente convinta che un gancio debba essere fisso, ben attaccato al muro, in modo che quando si preleva l’oggetto, esso non lo segua. Nella pratica significa che prendendo le presine lì attaccate – velocemente che la pasta sta per passare di cottura – il gancio ha buone probabilità di finire nella padella con la cicoria ripassata o dentro a quella in cui sta finendo di cuocere la salsa per la pasta. Seguono imprecazioni e smadonnamenti vari. Spostandomi a lato del lavandino dove sono appesi i canovacci succede che l’asola si attorcigli tutta intorno al gancio, e quando voglio prendere lo straccio non posso fare a meno dell’appendice metallica. Una mancanza di stabilità veramente irritante.

Cena romantica

Ai tempi del ristorante avevo un giovane cliente che una sera arriva con una ragazza per una cena romantica. La loro conoscenza era palesemente recentissima e lei molto disinvolta e vivace. Mi trattengo al tavolo per i convenevoli di rito e prendere l’ordinazione. Lei approfitta per andare in bagno e lui cosa fa? Commette l’errore di ordinare anche per lei, dimostrando savoire faire zero e altrettanta zero conoscenza del genere femminile. Quando lei torna lo sfotte garbatamente e provvede a ordinarsi un pasto di suo gusto. Mi sta simpatica. Anch’io le devo stare simpatica perchè con aria complice mi dice per scusarsi:

– Non farci caso, è nuovo!

La cena romantica si consuma in questa battuta, con il ‘nuovo’ che ha appena fatto la figura del deficente. Al quale porgo comunque la solidarietà del ristorante:

– Ma è nuova anche lei!

Il giovane cliente tornava dopo qualche tempo con un’altra ragazza, una ‘nuova’ tranquilla e remissiva che sicuramente non lo avrebbe mai messo in imbarazzo.